di Erika Orrù
Un silenzio assordante ha risucchiato troppo a lungo le vittime delle foibe, teatro di una pagina della nostra storia ancora controversa e molto dolorosa che ha coinvolto circa cinquemila italiani; ad oggi purtroppo è impossibile fare una stima certa delle vittime.
“Con il termine “foibe” – dice Margherita Sulas, ricercatrice di Storia Contemporanea - si indicano dei grandi inghiottitoi (o caverne verticali o pozzi), tipici della regione carsica. Nel parlare comune è un termine che rimanda immediatamente alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale, in particolare tra il 1943 e il 1945, e all’immediato dopoguerra, quando queste cavità furono usate per occultare le vittime degli eccidi”.
Prosegue Sulas - “All'indomani dell'8 settembre del 1943 la popolazione italiana di queste zone cadde nella morsa di violenza messa in atto dai partigiani jugoslavi, che si sentivano legittimati ad annettere al futuro stato jugoslavo la parte rivendicata del Venezia Giulia e del Friuli e a considerare la popolazione italiana come una “classe dominante” contro cui lottare e una componente etnica da allontanare. A queste ondate di violenza seguì l’esodo giuliano-dalmata, ovvero la diaspora di cittadini di lingua italiana dai territori di confine; centinaia di migliaia di persone furono costrette a vivere, in condizioni quasi disumane, nei campi profughi sparsi per l’Italia e additate come fascisti.”
Tra le vittime di quegli anni si contano anche 140 sardi. Erano in parte minatori del Sulcis, che da Carbonia si erano trasferiti a lavorare nei pozzi di bauxite in Istria, ma anche militari, soprattutto finanzieri e carabinieri, in servizio nel confine orientale.
Solo nel 2004, grazie ad un’apposita legge, “La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale Giorno del ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
Questa data viene scelta perché rappresenta un punto di non ritorno nelle tragiche vicende che sconvolsero il confine orientale italiano: il 10 febbraio 1947 infatti fu firmato il trattato di pace che assegnava l’Istria e buona parte della Venezia Giulia alla Jugoslavia. L’istituzione del Giorno del ricordo ha generato da subito non poche perplessità e critiche da parte di storici, politici e intellettuali.
“Ancora oggi - sostiene - quello che deve essere un momento di riflessione diventa, attraverso inutili strumentalizzazioni, il pretesto per lo scontro politico; a tanti anni di distanza continua a emergere il chiacchiericcio incessante e fastidioso delle solite polemiche. Claudio Magris, in merito a queste vicende, ci ricorda come ogni parte politica tenda non solo a nascondere i crimini compiuti in suo nome o comunque collegati con la sua ideologia, ma anche a rimuoverli, a ignorarli veramente, in un’orrida buona fede che è il risultato di un assiduo auto-ottundimento morale”.
“Sono tante le presunte ragioni – sottolinea la ricercatrice - di questo silenzio colpevole e dell’oblio oltraggioso della storia rimossa degli italiani di Istria e Dalmazia. È certo è che nessuna ragione può giustificarlo, così come nessuna violenza compiuta su innocenti giustifica la ritorsione di violenze su altri innocenti”.
“Io spero – auspica Margherita Sulas - che il Giorno del Ricordo serva, senza reticenze e senza strumentalizzazioni, a tenere viva la memoria delle vittime e la condanna dei carnefici, di qualsiasi schieramento e nazionalità, senza cadere nella tentazione di servircene, a distanza di 70 anni, per interessi di parte. Lo dobbiamo a coloro che nelle voragini carsiche hanno perso i propri cari, alla sofferenza di coloro che hanno perso una patria, un lavoro, una casa. Italiani che non verranno mai indennizzati in modo totale”.
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