Domenica, 12 Maggio 2024

Concludiamo la nostra lunga riflessione sullo stile delle nostre celebrazioni e sul ruolo di colui che presiede sottolineando ancora una volta il ministero della mediazione...

di Tonino Zedda

Compito non facile perché si tratta di purificare ed elevare la qualità della fede e della preghiera dell’assemblea ma anche di rendere accessibile a tutti, e nel modo più comprensibile, quanto si celebra alle persone che compongono l’assemblea celebrante. Ma per fare da mediatori tra il Libro liturgico, sia esso il Messale, il Lezionario o il rituale e l’assemblea, bisogna conoscere bene, familiarizzare e restituire l’uno e l’altra mediante una presidenza genuina e effettiva. Conoscere l’assemblea vuol dire conoscere la gente che concretamente la compone. Non solo anagraficamente, ma socialmente, veramente e culturalmente: in fondo significa non vivere fuori del mondo, seguire con attenzione i fenomeni sociali e culturali che, in un modo o nell’altro, toccano la vita di tutti, sforzarci di parlare il linguaggio del nostro tempo e della nostra gente, e così via. La celebrazione, per essere vera e autentica, deve portare la vita vera dell’assemblea dentro il rito per illuminare e alimentare la vita dei singoli fedeli e della comunità parrocchiale che vive qui e ora. Per usare un termine un po’ tecnico, dobbiamo attuare un processo di inculturazione della fede… rendere, cioè, la fede e i momenti della crescita e della celebrazione col linguaggio di Dio: un po’ come ha fatto Lui che per salvarci, per capirci, per giustificarci è diventato uno di noi. Infine, nella formazione alla presidenza liturgica, bisogna mettere in conto l’acquisizione di una buona capacità di espressione e di comunicazione. Anzitutto per quanto riguarda il linguaggio della parola; ma anche per quanto riguarda il linguaggio del corpo, degli atteggiamenti, dei gesti e delle cose. Sarebbe utile, per coloro che sono chiamati al servizio della presidenza curare la propria padronanza della lingua italiana… anche se la nostra pronuncia sarda è difficile da aggiustare: non dico di frequentare corsi di dizione ed educazione della voce, ma almeno impegnarsi nel pronunciare bene le parole, nel ricercare i termini più semplici possibili e facilmente comprensibili soprattutto durante l’omelia. Parlare in pubblico non è come parlare in un piccolo gruppo, proclamare la Parola richiede un certo tono di voce, una scansione chiara, un ritmo adeguato. Stessa cosa dicasi per il canto: un presbitero dovrebbe saper cantare, leggere la musica anche gregoriana e non sarebbe male anche saper suonare uno strumento soprattutto l’organo. Un tempo tutti i preti sapevano la musica e sapevano suonare uno strumento, almeno per l’accompagnamento e l’insegnamento degli inni liturgici. È molto importante anche la padronanza dei codici non-verbali della comunicazione, a cominciare dal modopersonale di porsi, di atteggiarsi, di muoversi, di gestire, di stare in piedi o seduti: una bella presidenza si vede anche dai dettagli, dal modo di tracciare il segno della croce o di fare una genuflessione o un inchino. La liturgia, infatti, è insieme parola e gesto. Anzi: più gesto che parola, perché nella liturgia anche il dire si inscrive nel registro del fare. In conclusione penso che la presidenza non riguardi solo il momento liturgico, ha un prima e un dopo: si presiede nella vita della comunità, nell’impegno pastorale. Il prete non è semplicemente un ministro del culto: in quanto ministro ordinato (e quindi deputato a ciò dalla Chiesa) deve, mediante la predicazione e la cura pastorale, generare la Chiesa soprattutto nella liturgia e nella carità. Il vero presidente, sull’esempio di Gesù, è un pastore buono. Il vertice di una presidenza si ha nel momento liturgico; ma la sua giustificazione si fonda nel servizio pastorale. Solo chi, come il Maestro e in dipendenza da lui, è capo e guida della comunità e per essa consuma continuamente la vita, può compiere il gesto rituale di agire inpersona Christi.

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