Domenica, 12 Maggio 2024

Concludiamo la presentazione dei riti orientali descrivendo brevemente gli ultimi quattro...

di Tonino Zedda

1. II rito siro-antiocheno è quello celebrato dai siriaci ortodossi nel patriarcato di Antiochia e in India, insieme a piccole comunità cattoliche siriaci e malankaresi. Questo rito è una sintesi dell’elemento siriaco originario (inni e corali) con diversi testi liturgici greci di provenienza antiochena, attuata da comunità monastiche di lingua siriaca, non calcedonesi, nell’entroterra della Siria, della Palestina e di parti della Mesopotamia, oltre che in poche città greche del litorale mediterraneo. 2. Il rito maronita, è sempre stato considerato come una variante latinizzata della tradizione siro-antiochena. Si tratta di una sintesi autonoma rintracciata nelle comunità calcedonesi di lingua siriaca che cercavano di stabilirsi in Siria, conservando le loro antiche usanze. Più tardi, molti di questi calcedonesi di lingua siriaca, vennero bizantinizzati, gli antichi riti siriaci furono, però, conservati e sviluppati dai monaci che si erano rifugiati nelle montagne del Libano. L’Ufficio divino non fu toccato e la liturgia eucaristica originaria continuò a essere usata. 3. Il rito copto. Nei primissimi secoli la cristianità egiziana (intorno ad Alessandria) usava la lingua greca; in seguito entrò l’uso della lingua egiziana. Dopo la nascita del monachesimo la Chiesa copta si costituì come un contrappeso autoctono. Questa cultura monastica creò la liturgia e gli uffici della Chiesa copta. La vera culla del rito copto è l’Alto Egitto, precisamente il Monastero Bianco vicino ad Achmin. Sotto il III abate Shenoute (383-451) divenne un centro di letteratura sahidica. L’attuale lingua liturgica (il bohairico) è una sorta di dialetto del basso Egitto. La sua importanza è connessa alla fortuna del monastero di San Macario a Scete. A partire dal Concilio di Calcedonia (451) i non-calcedonesi subirono gravi persecuzioni e il patriarcato, costretto a lasciare Alessandria, si rifugiò a Scete, che divenne in tal modo centro della Chiesa copta. L’odierno rito copto è fondamentalmente la tradizione di Scete modificata da successive riforme. Il patriarca Gabriele II Ibn Turayk (1131-1145) ridusse il numero delle anafore alle tre attuali, e Gabriele v (1409-1427) compose un Ordine liturgico per unificare gli usi divergenti in Egitto. Ancor oggi questi regolamenti governano il rito copto. Il rito orientale che conserva la forma monastica più pura è dunque quello della Chiesa copta d’Egitto. È un rito estremamente penitenziale, contemplativo, che si dilunga di solito per molte ore. È solennissimo e ricco di formule e inni splendidi, il complesso delle cerimonie è sontuoso quanto la tradizione bizantina. 4. Il rito etiopico. Le origini sono certamente alessandrine, soprattutto per ciò che concerne la celebrazione dell’Eucaristia e gli altri riti sacramentali. L’Ufficio divino etiopico è un altissimo esempio di creatività liturgica. Questo rito ha una forte impronta monastico-ascetica e mariana, prevede numerosi periodi di digiuno e numerosissime feste per la Madre di Dio. È un rito famoso per le danze liturgiche e le sue processioni; il clero si riveste con paramenti e copricapi sontuosi, ombrelli e bandiere multicolori; un rito, i cui maestri (dabtara) o cantori sono sempre in movimento al ritmo dei tamburi, oscillando come alberi agitati dal vento. La pluralità e la bella di tutti questi riti liturgici è un chiaro segno di quella primavera dello Spirito che, dalla Pentecoste a oggi innerva e vivifica tutta la Chiesa.

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