Siamo sinceri: quante volte ci è scappato di parlare in modo poco lusinghiero di qualcuno? Magari adirati, forse esasperati, oppure soltanto sarcastici, ne abbiamo parlato male, e ne sono stati vittima il politico di turno, piuttosto che il parente problematico, oppure il vicino di casa che teneva la musica a tutto volume quando volevamo dormire.
* di Mauro Solinas, avvocato
Se questo è avvenuto in presenza di almeno due persone, potremmo avere un problema piuttosto serio, anche se il diretto interessato non era presente (diversamente si tratterebbe di ingiuria, depenalizzata nel 2016 da reato a illecito amministrativo).
Tecnicamente, infatti, lo avremmo diffamato, avendo in qualche modo attaccato, offeso la sua reputazione ledendone l’onore. Che termini… Sembrano quasi riferirsi a concetti sbucati dal passato, anche se naturalmente non è così. E anche se, complice quella sorta di pressione che proviene dal mondo dei social a dire la nostra su tutto, e a farlo subito, talvolta si è portati a parlare o scrivere di getto senza pensarci troppo.
Già, i social: piattaforme utilissime, in cui però non è difficile perdere un po’ il senso della misura, e scrivere più di quanto avremmo fatto se ci fossimo presi il tempo necessario per riflettere e valutare le conseguenze: in pratica, se fossimo stati meno impulsivi.
Per loro natura, i vari Facebook, Instagram, TikTok consentono molto facilmente di inserire contenuti e di commentare quelli altrui. Essendo rivolti a una platea indeterminata di utenti, si prestano anche molto bene alla loro diffusione e, in questo senso, costituiscono un mezzo di pubblicità.
Di conseguenza, la diffamazione con questi mezzi è considerata più grave, proprio perché potenzialmente più dannosa. E poco, anzi nulla, importa se i fatti siano veri, in quanto ciò non costituisce una giustificazione. Non solo: l’offesa è considerata più grave se viene attribuito un fatto specifico, in quanto questo contribuisce a rendere più credibile la diffamazione. In fondo, siamo tutti portati a ritenere più vero un fatto specifico, rispetto a un’affermazione generica, come quando viene diffamato qualcuno dicendo o scrivendo che Ha truffato la sua Compagnia di assicurazioni simulando un sinistro e intascando xmila euro, rispetto al generico È un truffatore.
In questo senso, la specificità finisce quasi per fungere da prova. Ma allora, non si può dire più nulla? E neppure scrivere nulla? Bisogna distinguere: il diritto di cronaca (diffusione di informazioni legittime relative a eventi di rilevanza sociale) e quello di critica (dichiarazioni relative a fatti veri, espresse in maniera rispettosa, rispondenti a un reale interesse pubblico) sono sempre garantiti e tutelati.
Non lo sono, invece, i proclami, gli scritti o i commenti che consapevolmente offendono. L’uso dei social a questi fini configura un reato di competenza del giudice di tribunale, diversamente dalla diffamazione non compiuta con un mezzo di pubblicità, che è competenza del giudice di pace; e la pena è maggiore, potendo arrivare fino a tre anni di reclusione.
Il procedimento penale, tuttavia, non si instaura automaticamente, ma è necessario che la persona diffamata, entro tre mesi da quando ha avuto conoscenza della diffamazione, presenti una querela, che è l’atto con il quale chiede che l’Autorità giudiziaria proceda penalmente nei confronti del soggetto responsabile. E perciò, la prossima volta che ci prude la lingua, o la penna, o la tastiera, riflettiamo: sto forse oltrepassando il confine del lecito?
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