Il Sudan oggi, nonostante la scarsa attenzione internazionale, è teatro di una tra le peggiori crisi umanitarie al mondo. Si trova nell'Africa nord-orientale, in una posizione che lo rende un ponte tra l’Africa sub-sahariana e il mondo arabo, strategica per scambi commerciali, rotte migratorie e influenza politica. La sua storia è segnata da tensioni etniche, disuguaglianze economiche e potere politico concentrato nelle mani di pochi.
* di Nicolò Virdis
Per trent’anni il Paese è stato sotto la dittatura di Omar al-Bashir, convinto sostenitore dell’etnia araba, che prese il potere con un colpo di stato nel 1989 e lo mantenne fino al 2019. Del suo governo sono tristemente noti i fatti del cosiddetto Genocidio del Darfur, una vasta regione occidentale che prende il nome dai Fur, uno tra i principali gruppi etnici locali. Insieme ai Fur ci sono Masalit e Zagawa: i primi due legati all’agricoltura sedentaria, gli Zagawa dediti all’allevamento e al commercio, più mobili sul territorio.
Accanto a questi vivono comunità arabe, perlopiù nomadi e dedite alla pastorizia. Le differenze non sono razziali ma economiche e riguardano l’uso della terra e delle sue risorse. Dopo l’indipendenza degli anni ’50, i governi centrali hanno sfruttato le ricchezze agro-pastorali e petrolifere del Darfur, senza investire nello sviluppo, aumentando tensioni e marginalizzazione.
Nei primi anni Duemila, desertificazione e crescita demografica intensificarono la competizione per le risorse. Il governo di al-Bashir sfruttò il conflitto armando alcune milizie arabe per reprimere le comunità locali che chiedevano maggiore rappresentanza. Queste milizie furono chiamate janjawid (demoni a cavallo) per la brutalità degli attacchi: stupri, saccheggi e omicidi volti a terrorizzare e sfollare intere popolazioni. In risposta nacquero gruppi armati di autodifesa, tra cui il Sudan Liberation Movement - Army, composto soprattutto da Fur e Masalit, e il Justice and Equality Movement, legato a figure politiche Zagawa ostili al regime.
Nel 2006 venne firmato l’Accordo di Abuja, ma molte milizie non aderirono e le violenze continuarono. Nel 2008 al-Bashir fu accusato dalla Corte Penale Internazionale di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Rimase tuttavia al potere fino al 2019, quando fu deposto da un colpo militare organizzato dal capo dell’esercito regolare sudanese (SAF) in alleanza con le Rapid Support Forces (RSF), una forza paramilitare nata nel 2013 dalla riorganizzazione delle milizie janjawid.
Nel 2023 l’alleanza tra SAF e RSF crollò e si aprì una guerra civile con una contesa territoriale divisa che continua ancora oggi: il SAF controlla la parte orientale del Paese e la capitale Khartum, riconquistata a marzo dopo due anni di dominio delle RSF. Queste ultime hanno invece consolidato il controllo della parte occidentale nelle ultime settimane, occupando Al-Fashir, capitale del Darfur.
Le violenze sono gravissime: immagini satellitari mostrano resti umani accatastati e interi villaggi distrutti. I dati sono spaventosi: secondo l’UNHCR, dal 2023 a oggi 12,3 milioni di persone sono state costrette a fuggire dentro e fuori dal Sudan.
L’UNICEF denuncia invece che 150mila bambini rischiano la malnutrizione acuta grave e 14 milioni non frequentano la scuola, cioè 4 bambini su 5. I morti si aggirerebbero attorno ai 30mila entro la fine del 2024, secondo Medici Senza Frontiere. È in questo scenario drammatico che vivono milioni di persone, spesso senza voce e senza protezione internazionale.
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