Il Cinema è l’occhio che nel Novecento ha forse meglio rappresentato un secolo complesso e ricchissimo di mutamenti senza precedenti. Il Cinema ci ha fatto sognare, viaggiare, capire, e, soprattutto, ha il potere di farci vivere in prima persona i fatti che vengono narrati su quel telo bianco illuminato da ombre che si muovono componendo una sensazione di realtà. Giorgio Diritti è un regista bolognese, che negli ultimi 20 anni si è affermato come una tra le figure più interessanti del panorama produttivo italiano.
* di Antonello Carboni
La settimana scorsa è stato ospite del Centro Servizi Culturali UNLA di Oristano a conclusione di una mini rassegna di film che lo ha celebrato. Vanta infatti numerosissimi premi: ricordiamo sette David di Donatello e un Orso d’Argento a Berlino. Durante il suo breve soggiorno oristanese abbiamo avuto il piacere di incontralo e farci con lui una breve chiacchierata.
Lei è il regista del film Volevo Nascondermi, sul pittore Antonio Ligabue; ma anche di Un giorno devi andare e di Lubo. Emerge nei suoi film come si occupi sempre di minoranze: da cosa nasce questo sguardo così sensibile e attento?
Probabilmente lo si deve alle mie origini familiari, noi siamo istriani e i miei sono scappati dai titini, quando a un certo punto le cose si misero davvero male; forse mi è rimasta questa dimensione storica nel cuore e ho cercato, sotto altre svariate forme, di raccontare la diversità, di dare voce ai deboli, agli ultimi. Io non capisco perché l’uomo non arrivi a comprendere le diversità che ci differenziano, che vanno accettate e che ci possono arricchire. Il benessere economico credo abbia creato anche molti danni. Ormai facciamo fatica a sorridere, se non negli spot pubblicitari. La dimensione di porre il denaro al primo posto nella scala dei valori, anziché il valore della vita, determina che l’uomo sia subordinato all’esercizio del potere e dei soldi.
Due mesi fa ha vinto il Premio Sancassani, nell’ambito della 82ª edizione della Biennale di Venezia, premio assegnatole per il suo cinema profondamente umano. È un premio istituito dalla Fondazione Ente dello Spettacolo che promuove la cultura cinematografica su mandato della Conferenza Episcopale Italiana. Ci può dire qualcosa?
Mi hanno assegnato questo premio con il mio primo lungometraggio, Il vento fa il suo giro, del 2005, che rimase in programmazione al mitico Cinema Mexico di Milano per circa un anno e mezzo. Per me si apre uno squarcio nella dimensione del ricordo e della difficoltà che comportò realizzare quel lavoro. In pochissimi credettero in questa storia girata in mezzo ai monti, la storia di un capraro francese che viene respinto da una piccola comunità piemontese.
Noi spettatori cosa dobbiamo imparare da questo suo lavoro completamente in lingua occitana?
Dobbiamo imparare a convivere in pace, la gente dovrebbe andare d’accordo, come dice il parroco nella scena del film; e sembra pure che nessuno ricordi che mestiere abbia fatto il padre. La cultura nasce dalla convivenza, giorno dopo giorno. Dovremmo abbandonare sentimenti di invidia, di gelosia, dovremmo buttare via ciò che ci rende peggiori. Il film è un inno alla vita, dovremmo cercare di viverla riuscendo a esprimere noi stessi: invece siamo inchiodati dalle nostre chiusure...
Lei ha avuto maestri che sono dei giganti del Cinema: Pupi Avati, Ermanno Olmi, Federico Fellini e Carlo Lizzani.
Lavorare con loro mi ha insegnato tantissimo ovviamente, ma forse ciò che poi ho messo maggiormente a frutto è stata l’esperienza di Ipotesi Cinema di Ermanno; lui ci chiamava, ci riuniva anche solo per parlare di un suo progetto cinematografico, voleva sentirci, discutere con noi che eravamo circa una quindicina. Con Fellini ho curato tutto il casting per l’Emilia Romagna de La voce della Luna: poi mi propose di seguirlo a Roma ma rinunciai, l’ambiente non era facile, e non è mai stato facile.
Lei ha debuttato nel cinema con un corto al Festival di Clermont Ferrand nel 1993 ma poi sono passati più di dieci anni per il Cinema lungo: cosa ha fatto in questo periodo?
Ho fatto tanti documentari, corti, e mi rendo conto di avere indagato tante vicende da permettermi poi di raccontarle in cinema.
Si riferisce in particolare al film L’uomo che verrà? Un film che l’ha consacrata nel cinema con una valanga di David di Donatello?
Sì, esattamente. Per occuparmi della strage di Monte Sole, più nota come Marzabotto, quella perpetrata dai nazisti ai danni di circa 770 vittime tra donne, uomini e bambini, ho fatto tantissime ricerche e poi ebbi la fortuna di intervistare mons. Luciano Gherardi, che a conclusione del lavoro mi regalò un libro scritto da lui. Dense pagine di storia ripercorrevano quei terribili momenti dei rastrellamenti che portarono all’uccisione anche di due preti, suoi cari amici di gioventù: don Giovanni Fornasini e don Ubaldo Marchioni. Insomma, alla fine dell’indagine avevo tanto materiale da farci il film.
Girerà qualche suo film anche qui in Sardegna?
Guardi, conosco la luce del Sinis, sto facendo anche ricerche su una probabile storia che ha una connessione con la Sardegna. Nella mia infanzia, prima di tornare a Bologna, ho avuto tanti amici sardi! Cherchi, Mocci, Sanna, ho bellissimi ricordi e una fantastica connessione con questa terra. Chissà che un domani non riesca a girarci un film!
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